L'idealista e l'antesignano dei tempi moderni

In quel tempo un giovane medico, da poco laureato, era appena entrato a far parte del personale del servizio di guardia medica notturna e festiva della provincia di una città della pianura padana. Un sabato pomeriggio di Novembre inoltrato, alle due in punto, il giovane medico aveva iniziato un turno di guardia di quarantotto ore nell’ambulatorio di un paesino di collina, presidio di un comprensorio di guardia medica vasto ed indesiderato dalla maggioranza dei suoi giovani colleghi. Tale comprensorio era sgradito ai più non solo per la sua estensione, ma anche perché includeva piccoli borghi ed agglomerati di case di alta collina, difficili da raggiungere per la tortuosità delle strade, frequentemente sterrate e dotate di una segnaletica che lasciava molto a desiderare. Il giovane medico, tuttavia, conosceva bene la zona poiché vi era nato e non aveva nessuna difficoltà a destreggiarsi in tutti quei paesini di alta collina, inoltre, poteva tornare a casa per mangiare. Per tali ragioni, cambiava volentieri con i colleghi i suoi turni di guardia nei comprensori di pianura con quelli di collina.
Preso servizio, il giovane medico sperava di potersi riposare, poiché aveva lavorato gratuitamente per dieci ore al giorno per tutta la settimana in un reparto di medicina generale dell’Ospedale Civile della città di provincia. Non solo aveva lavorato gratis ma aveva anche speso i pochi soldi guadagnati facendo le guardie mediche per i viaggi di andata e ritorno dal paese all’ospedale e viceversa e per mangiare dei pessimi panini al bar di fronte all’Ospedale. Le sue speranze tuttavia andarono subito deluse poiché alle due e dieci minuti, si materializzavano davanti a lui due giovani sposi con un bambino di circa cinque anni che aveva la febbre “a quaranta”. La madre era vestita alla moda, truccata e pettinata di tutto punto e con le scarpe col tacco alto; il marito al contrario aveva un aspetto dimesso, e, con in braccio il figlioletto, un morettino sonnecchiante con i pomelli belli rossi, faceva tenerezza. Ovviamente, iniziò a parlare la madre, che spiegò al giovane medico perché il figlio aveva la febbre e che cosa doveva fare per fargliela passare. Il giovane medico, mascherando l’irritazione, disse al padre, un suo amico, di adagiare il bambino sul lettino e dopo averlo auscultato sul torace e visitato dal capo ai piedi concluse che si trattava di una banale tonsillite. Prescrisse pertanto un antibiotico ed un antipiretico, entrambi forniti gratuitamente dal sistema mutualistico, e dopo aver tranquillizzato i genitori li salutò nella speranza di poter riposare. Tuttavia, con grande dispiacere, in quei pochi minuti aveva intuito che, la definizione la “gha una testa can la baca gnan i crovv *”, attribuita dal popolino alla madre, era appropriata.
Circa dieci giorni più tardi, il giovane medico incontrò il marito al Bar Grande del paese per una briscola in cinque e prima di iniziare a giocare gli chiese come stava suo figlio. L’amico, sensibilmente imbarazzato, gli disse che, giunti a casa, al posto di mandarlo in farmacia a comperare i farmaci prescritti, la moglie aveva iniziato ad incalzarlo con frasi del tipo “....il tuo amico dottore è troppo giovane...non ha esperienza....ha i capelli troppo lunghi…io non mi fido di lui...ci vuole il parere di un medico più esperto....e avanti con questa solfa...”. Alla fine il poveretto, pur di non sentire più nelle orecchie il rosario della moglie, per lui più fastidioso del mal di pancia, aveva chiamato un pediatra esperto: un ometto sulla sessantina, pelato, con le lenti degli occhiali montate su una montatura fine di metallo color oro e vestito con un completo grigio chiaro.
Il pediatra era sempre in prima fila a ricevere l’ostia alla messa delle sette di mattina e sempre in ultima fila nel seguire alcune buone indicazioni del Vangelo; un’ipocrita attaccato al denaro che esercitava la professione con l’unico obbiettivo di farla rendere. Per capire il soggetto basta raccontare un aneddoto. Una volta l’ometto si era recato a casa di un giovane collega alle dieci di mattina con la scusa di salutarlo e bersi un caffè a sbaffo. In assenza del collega, che a quell’ora stava ovviamente lavorando nel suo studio, la moglie, una donna alta, con due begli occhi neri, mite e gentile e molto educata, gli aprì la porta e dopo alcuni convenevoli di cortesia gli offrì il caffè. Mentre preparava il caffè, la signora spiegò al pediatra che il figlio non era a scuola perché convalescente per una faringite acuta. Il pediatra facendo finta di giocare col bambino gli guardò le tonsille constatandone la completa guarigione e dopo aver bevuto il caffè, si alzò, si rimise il cappotto e si incamminò verso l’uscita. Per rispetto, la moglie del collega che da giovane era stata una paziente del pediatra, nell’accompagnarlo alla porta gli chiese se, eventualmente, gli dovesse qualcosa per aver visitato il figlio. Il pediatra gettandogliela lì con sufficienza, come se le stesse facendo un piacere, le disse “…ma si…dammi cinquantamila lire… che siamo a posto…”. La moglie del giovane collega, attonita, andò a prendere i soldi, glieli diede e lo salutò. In casa sua l’ometto non avrebbe più avuto il piacere di essere invitato e non ci avrebbe mai più messo piede.
Tornando a noi, il pediatra si era recato a casa dei due giovani e dopo aver visitato il bambino con fare paternalistico e tranquillizzante disse “ma no…ma no…ha solo la gola un po’ arrossata…basta un po’ di areosol e di antipiretico… e gli passa tutto”. Gli aveva prescritto due applicazioni al giorno di areosol a base di cortisone, si era fatto pagare centocinquantamila lire, rigorosamente “in nero”, poi cordialmente aveva salutato con un caloroso arrivederci a presto. Ovviamente, la situazione non era migliorata, anzi il giorno seguente il mal di gola impediva quasi del tutto al bambino di deglutire e la febbre era stabilmente al di sopra dei trentotto, scarsamente e molto fugacemente responsiva agli antipiretici. Ovviamente quell’arrivederci a presto si materializzò. Giunto a domicilio, il pediatra chiese se le sue prescrizioni fossero state eseguite alla lettera ed a risposta affermativa della moglie, ottenuta ancor prima di terminare la domanda, con fare premuroso visitò il bambino. Al termine sentenziò “…il ceppo di batteri responsabile di questa tonsillite…probabilmente non è quello che prendono tutti i bambini…e che guarisce con niente…questo bambino ha preso dei batteri più pericolosi di un branco di coccodrilli affamati del Nilo”. Di fronte allo sbigottimento dei due genitori continuò “…è necessaria una cura veramente forte…sperando che funzioni…. e che non sia necessario il chirurgo”. Prescrisse pertanto, una cefalosporina di terza generazione, somministrabile solo per via intramuscolare, e che costava “una mina” oltre che necessitare dell’intervento di una infermiera, di cui il pediatra si affrettò a fare nome e cognome. Poi, raccomandando calorosamente di portare il bambino al controllo dopo tre giorni di trattamento anche nel caso in cui si fosse stabilmente sfebbrato, prima di licenziarsi concluse “considerato che è la seconda visita in due giorni…bastano cinquantamila lire”. Incassò il denaro, sempre rigorosamente “in nero”, e salutando uscì.
Dopo tre giorni la moglie, vestita di tutto punto, aveva portato il bimbo, che stava meglio, al controllo. Dopo una fugace occhiata alla gola del bimbo il pediatra sentenziò “meno male…meno male che abbiamo indovinato l’antibiotico…in caso contrario non so come sarebbe potuta finire…e comunque se dovesse succedere di nuovo…chiamatemi subito… che io…per queste emergenze vengo in qualsiasi momento del giorno… e della notte”; poi, rivolgendosi alla segretaria le disse “falle lo sconto…mi raccomando…” e bonariamente li salutò. La segretaria, una donnina secca ed elettrica, dallo sguardo sfuggente, consegnò alla moglie un foglio con scritto “Sta meglio. Prosegue la terapia per altri tre giorni” poi, con fare maternalistico, disse “Signora… il costo della visita sarebbe di centocinquantamila lire…ma se paga così…e… non faccio la fattura… ne bastano centomila”. La moglie pagò altre centomila lire, sempre rigorosamente “in nero”, e felice e convinta di aver fatto tutto il meglio per il figlio, uscì dall’ambulatorio e tornò a casa.
Il giovane medico, tutto nervi come i suoi giovani segugi e pieno di sé, sentito il racconto, pensava di aver capito tutto e di essere molto più bravo del pediatra che era rimasto indietro. Tuttavia, il tempo gli avrebbe dimostrato che lui era in errore. Il suo smisurato senso dell’Io gli aveva impedito di mettere a fuoco che anche il pediatra aveva capito tutto molto bene e che la sola differenza tra loro stava nella domanda che si erano fatti di fronte al bambinetto con la febbre. Lui si era chiesto che cosa aveva il bambino e come fare per farlo guarire velocemente spendendo il meno possibile, mentre il pediatra si era chiesto come fare a far rendere la malattia del bambinetto il più possibile in tutti i sensi. Di conseguenza lui aveva prescritto l’antibiotico più economico consigliato dalla buona pratica clinica sicuro della rapida guarigione del bambino, mentre il pediatra aveva inizialmente prescritto un aerosol a base di cortisone sapendo che, se usato senza antibiotico, avrebbe peggiorato localmente l’infezione, per poi prescrivere un antibiotico di terza scelta. Tale condotta gli avrebbe procurato benefici sia in termini di comparaggio che di pubblicità, poiché l’infermiera professionale in pensione gratificata dal guadagno extra sicuramente lo avrebbe consigliato come pediatra ad altre giovani mamme. Infine, la drammatizzazione del quadro clinico avrebbe completato l’opera producendo un’ulteriore remunerazione economica con una terza visita assolutamente inutile, ed aumentando la tribuna d’ascolto delle sue gesta. Vuoi che una madre giovane ed ingenua dopo tale esperienza non vada in giro a dire “ma se non trovavo il pediatra tal dei tali…un medico così bravo, preparato e premuroso…chissà come sarebbe andata a finire?”.
* aveva un testa che non l’avrebbero beccava neanche i corvi, i quali, come è noto, mangiano di tutto
Commento
Dal racconto potrebbe sembrare che i due medici avessero un’estrazione sociale e un modo di pensare completamente antitetico e che il primo fosse una persona generosa, di alto profilo morale, con il senso di appartenenza alle istituzioni e con nobili ideali, mentre il secondo una persona avida, di basso profilo morale e senza il senso delle istituzioni, ma antesignano della futura evoluzione del pensiero sociale.
Ben lungi dall’ esprimere alcun giudizio morale o di sindacare sul tipo di comportamento individuale tenuto dai due medici, mi limito a constatare che l’episodio narrato rispecchia un periodo temporale della loro vita professionale troppo breve e che pertanto non può essere usato per esprimere un giudizio complessivo sulla persona. Infatti, non è affatto escluso che il giovane medico sottoposto alle sollecitazioni della vita avrebbe potuto in seguito tenere comportamenti disdicevoli se non peggiori di quelli dell’anziano pediatra nel caso specifico.
Devo anche sottolineare che, personalmente, non avrei avuto nulla da ridire se l’anziano pediatra, dopo aver visitato il bimbo gli avesse prescritto di primo acchito la terapia corretta, sollecitando un controllo solo in caso di fallimento della medesima. La questione è che se un medico che esercita, come da suo diritto, la libera professione guadagna perché ha una professionalità migliore di altri sui colleghi il guadagno è giustificato e condivisibile, mentre se guadagna carpendo la buona fede dell’assistito il guadagno non è né giustificato né tantomeno condivisibile.
Detto questo, il breve racconto è stato scritto per sollecitare una riflessione sul tipo di remunerazione da attribuire all’atto medico ed iniziare una discussione per così dire collegiale sul modello di sistema sanitario di cui un paese civile debba dotarsi. Al fine di definire senza compromessi il modello sanitario da applicare è tuttavia necessario rispondere alla domanda: voglio che il professionista che ho davanti quando sto male si chieda “come faccio a capire che cosa ha questo paziente e come faccio a curarlo?” oppure che si chieda “come faccio ottenere il massimo beneficio economico nel curare questo cliente”. Ovviamente, dopo una discussione esaustiva sull’argomento dovrà essere la maggioranza assoluta degli Italiani a rispondere.
E’ di fondamentale importanza per tutti sapere se la salute degli italiani deve essere affidata al sistema sanitario nazionale, che è un patto tra tutti i cittadini italiani indipendentemente dall’estrazione sociale, dal livello di benessere economico, dall’appartenenza politica e dalla fede religiosa a tutela della salute di tutti, oppure, se deve essere affidata ad un sistema aziendalizzato e quindi con finalità di lucro e a tutela del capitale degli investitori. Solo una decisione chiara e condivisa, qualunque sia, consentirà a tutti i cittadini di fare le scelte del caso a tutela della loro salute.